Intorno al patronato della musica della Accademia Filarmonica di Verona nel Cinquecento: riflessioni e congetture Visualizza ingrandito

Intorno al patronato della musica della Accademia Filarmonica di Verona nel Cinquecento: riflessioni e congetture

Autore Marco Di Pasquale
Collana Recercare - Rivista per lo studio e la pratica della musica antica - Journal for the study and practice of early music
Dimensioni 17×24, pp. 286
Anno 2012
ISBN 9788870966817

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Nel sedicesimo secolo, Verona fu assoggettata alla sovranità della repubblica di Venezia, che negò agli ottimati locali la partecipazione al governo, relegandoli a compiti amministrativi. Essi cercarono perciò conferma della loro identità — che si pretendeva congrua a virtù, ricchezza e potere — in una realtà alternativa, sebbene per qualche verso parallela, al teatro della politica. Tale fu l’Accademia Filarmonica, fondata nel 1543, improntata a concezioni ideologiche e filosofiche di matrice platonica, e della quale i patrizi si assicurarono presto il controllo. Ispirandosi alle corti italiane, il sodalizio si atteggiò a ‘regno’ retto da giurisdizione propria, non sottomesso ad altra potestà, e si fece fautore di un modello di mecenatismo paragonabile a quello principesco. La Filarmonica si impose così come l’unica istituzione del territorio in grado di promuovere le relazioni tra affiliati, ospiti di nobile lignaggio e rappresentanti della Serenissima. In ossequio alla funzione eminente per il perfezionamento del gentiluomo che i manuali di comportamento attribuivano alla musica, il consesso incitò i propri membri alla pratica vocale e strumentale, anche dotandosi di una biblioteca musicale e di un corredo strumentale eccezionali. Inoltre, realizzò eventi musicali pubblici, reclutò personale specializzato e protesse i compositori tramite l’istituto della dedica. Tali forme di patronato legarono i musicisti con vincoli paternalistico-clientelari descritti da scarto sociale fra padroni e servitori, longevità della relazione, ed estensibilità di obblighi e benefici ai congiunti delle due parti. Per esempio, Jan Nasco, il primo maestro di musica, assunto nel 1547, oltre che dell’insegnamento del canto e della musicazione dei testi poetici forniti dagli accademici, fu richiesto di molteplici prestazioni, anche eccedenti gli accordi contrattuali, e fu espropriato delle composizioni scritte nel periodo trascorso alle dipendenze del circolo. Da un lato, il ricorso a musici avventizi per gli intrattenimenti danzanti offerti a nobili cittadini e forestieri dà dimostrazione della varietà di patronato definita istituzionale, che si affidava a canoni stereotipati, desunti dai cerimoniali cortesi e municipali, per simboleggiare il rango dei mecenati, dei quali dunque non rivelava le propensioni particolari. Dall’altro lato, le esecuzioni che, in occasione della messa del primo maggio (anniversario della fondazione) e di altre festività, coinvolsero gli accademici stessi nelle vesti di cantori e strumentisti si rivolsero al paradigma del mecenatismo cosiddetto umanistico, proteso alla dimostrazione della loro competenza musicale di ordine superiore. Per tutelare la propria reputazione, l’adunanza praticò la censura, sia alle composizioni da ammettere nel proprio repertorio, sia alle opere ricevute in dedica: commissioni elettive di soci erano incaricate dell’audizione dei brani e dei giudizi. A ogni modo, la verifica sui tredici libri di musica che le furono offerti fra il 1548 e il 1600 mette in luce come, nei casi per i quali sopravvive la documentazione, l’accettazione e la conseguente elargizione di un donativo furono deliberate a pubblicazione avvenuta. L’accertamento delle qualità intrinseche alle musiche destinate all’istituto, o selezionate altrimenti, e che furono incaricate di notificare la sua superiorità aristocratica, va oltre lo scopo di questo contributo. In considerazione del fatto che l’esecuzione pubblicamente ostentata costituiva lo scopo ultimo dell’iniziativa mecenatesca, è però importante comprendere che una simile indagine non dovrebbe prescindere dalle modalità con le quali gli associati, o chi per essi, tradussero quelle composizioni in esecuzioni sonanti. Sebbene i quesiti suscitati da questa problematica non trovino risposta esauriente nelle carte d’archivio, testimonianze di vario genere suggeriscono che il «concerto», in quanto opzione performativa straordinaria e di grande impegno, rappresentò, sul piano simbolico così come su quello sonoro, un ideale coerente con le inclinazioni concettuali e ideologiche degli accademici. Sospinti dall’intento di certificare la loro eminenza sociale, culturale e, in qualche modo, anche politica, essi si servirono della musica, che il platonismo accreditava di potenza elevatissima, quale espediente più appropriato alla persuasione dei loro interlocutori.